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di Riccardo Tedeschi

Alla fine del secolo scorso alcuni pensatori tra i quali Galimberti e Severino rilevavano come l’umanità stava abbandonando l’età dell’umanesimo per entrare nell’età della tecnica. Osservava Galimberti che l’uomo ancora continuava a pensare alla tecnica come a uno strumento a disposizione dell’uomo, mentre la tecnica già costituiva l’ambiente che ci circondava (e ci circonda) funzionante secondo le regole di razionalità ed efficienza che non esitano a subordinare le esigenze dell’uomo a quelle dell’apparato tecnico. L’essere umano, inconsapevole, però si comportava ancora con i tratti tipici dell’uomo pretecnologico che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee e un corredo di sentimenti in cui si riconosceva. Ma la tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela verità: la tecnica funziona o non funziona.

Il dominio neoliberista 

Sono passati quasi tre decenni e c’è chi ha asservito la tecnica ai propri interessi. Rispetto a cinquant’anni fa, osserva Byung-Chul Han, il sistema di dominio neoliberista è strutturato in maniera del tutto diversa. Il potere non è più repressivo, bensì seduttivo e non è più evidente e visibile come sotto il regime disciplinare. Non c’è una controparte evidente, il “padrone”, non c’è un nemico che opprime la libertà e contro il quale opporre resistenza. Il neoliberismo ha modellato, a partire dall’operaio oppresso, un libero imprenditore, un imprenditore di sé stesso.

Oggi ciascuno è un operaio che si sfrutta da solo, un dipendente di sé stesso. Ciascuno è al contempo servo e padrone, per cui la lotta di classe si è trasformata in lotta interiore. Oggi chi fallisce si dà la colpa e si vergogna, individuando il problema in sé stesso anziché nella società.

Il vecchio potere disciplinare, con grande dispendio di energie, costringeva le persone con comandi e divieti, mentre oggi le persone si sottomettono volontariamente, realizzando un sistema molto più efficiente, che fa leva sul piacere e sulla soddisfazione dei desideri (indotti). Anziché rendere le persone remissive, le rende dipendenti.

Negli anni Ottanta del Novecento in tutta Europa ci furono forti proteste contro il censimento voluto dalla Comunità Europea, visto come strumento del potere per strappare informazioni ai cittadini al fine di meglio controllarli; oggi ci denudiamo volontariamente attraverso strumenti digitali, fornendo volontariamente informazioni in quantità e di qualità estremamente maggiori di quelle che venivano richieste con il censimento.

Questo denudamento volontario segue la stessa logica dell’auto sfruttamento. Un sistema che ha portato l’artista americana Jenny Holzer ad affermare: “protect me from what I want”.

Il potere che salvaguarda il sistema assume oggi una forma affabile, smart, rendendosi invisibile e inattaccabile. Il soggetto sottomesso non sa nemmeno di esserlo, anzi crede di godere della massima libertà. Questa tecnica di dominio neutralizza la resistenza in maniera efficacissima, si immunizza contro possibili resistenze usando la libertà invece di opprimerla. Il comprimere la libertà provoca presto resistenza, il suo sfruttamento no.

Nel sistema produttivo odierno non esiste una massa di lavoratori collaborativa e connessa in grado potenzialmente di una protesta globale; è piuttosto la solitudine di isolati imprenditori di sé stessi a caratterizzare l’attuale sistema produttivo. Prima erano gli imprenditori in concorrenza tra loro, mentre all’interno dell’azienda vi era solidarietà tra i dipendenti. Oggi la concorrenza è ovunque, anche tra colleghi della medesima azienda. La concorrenza universale aumenta senza dubbio la produttività, spesso sino a livelli spaventosi e insostenibili, ma distrugge la solidarietà e il senso di comunità.

Che ne è del comunismo? Oggi si evocano ovunque community e condivisione. La sharing economy dovrebbe sostituire l’economia della proprietà trasformando la società proprietarista in una società della condivisione, ma non è vero. Piuttosto la sharing economy tende alla commercializzazione totale della vita. Il passaggio dal possesso all’accesso non ci libera dal capitalismo (chi non ha soldi non ha accesso nemmeno allo sharing) e le community che trasformano tutti noi in tassisti o che condividono alloggi (come Airbnb), arrivano a sfruttare economicamente anche l’ospitalità. Si condivide tutto, ma nessuno cede volontariamente e gratuitamente qualcosa. Non è possibile affabilità e cortesia senza secondi fini. Nella società in cui ci si recensisce a vicenda anche l’amicizia viene commercializzata.

Il capitalismo raggiunge il suo culmine nel momento in cui vende il comunismo come una merce.

L’economista francese Bernard Maris, morto assassinato nel 2015, affermava che il capitalismo canalizza la pulsione di morte verso la crescita e che le energie distruttive del capitalismo prendono il sopravvento e travolgono la vita. La distruttività della coazione a performare fa coincidere autoaffermazione e autodistruzione. Ci si ottimizza fino a schiattare. L’autosfruttamento porta al collasso della mente; la concorrenza brutale suscita freddezza e indifferenza verso chiunque altro e arriva a sovrapporsi a quella verso sé stessi.

Il capitalismo si fonda, secondo Maris, sulla negazione della morte ed il capitale viene infatti accumulato contro di essa, vista come la perdita assoluta.

È una vita non morta, ma non vita. Gli zombies della prestazione, del fitness e del botulino ne sono la manifestazione. L’isteria salutista è la manifestazione biopolitica del capitale. Il capitalismo erige necropoli, asettici spazi mortiferi purificati di qualsiasi odore o rumore umano, dove i processi vitali vengono trasformati in processi macchinici. Il dio della prestazione avvicina sempre più l’essere umano alla macchina e lo aliena da sé stesso; il dataismo e l’intelligenza artificiale reificano il pensiero che diventa calcolo; anche i ricordi vengono sostituiti dalla memoria artificiale.

Affermare la vita significa anche affermare la morte, perché la vita che nega la morte nega sé stessa. Ricorda Byung-Chul Han che solo un modo di vivere capace di restituire la morte alla vita può liberarci dal paradosso della vita non morta: siamo troppo vivi per morire e troppo morti per vivere.

Il customer lifetime value indica il valore rappresentato da un essere umano nel corso della sua intera vita di cliente poiché l’economia di mercato neoliberista tende a convertire la persona e la sua esistenza in termini di mercato. L’essere umano non è più tale, bensì un consumatore. Il capitalismo odierno disgrega l’esistenza umana in una rete di rapporti commerciali. Il sistema può attribuire un valore a ciascuno grazie alla sorveglianza digitale che è resa possibile dall’iper comunicazione che penetra qualsiasi cosa e che consente di disporre di una tale quantità di dati da comporre una scala di settanta livelli, dove il livello più basso, dove sono collocate le persone con scarso valore cliente, è chiamata waste, spazzatura.

Assoluto (auto)sfruttamento e sorveglianza totale sono le due facce della stessa medaglia della psicopolitica digitale che degrada le persone a oggetti quantificabili e influenzabili, decretando la fine del libero arbitrio. Ma la valutazione economica di una persona contrasta con l’idea stessa di dignità umana. È risibile vedere oggi istituti bancari e finanziari che si presentano con lo slogan “creiamo fiducia”, quando in realtà sanno tutto sul conto di chiunque: è cinismo puro. Fiducia, al contrario, consiste nel trattenere un rapporto positivo con una persona senza sapere nulla sul suo conto; se di una persona so tutto, la fiducia diventa superflua. Vi sono aziende e agenzie specializzate che raccolgono e analizzano dati (Acxiom, Schufa e molte altre) che sono in grado ciascuna di elaborare giornalmente centinaia di migliaia di profili dettagliatissimi su ciascuno di noi. Il concetto stesso di fiducia implica la possibilità che la stessa venga tradita, così come la libertà implica un certo rischio sociale. Ma una società che in nome della sicurezza subordina tutto al controllo, precipita nel totalitarismo.

L’aspetto singolare e nuovo del neoliberismo è che le persone non sono solo prigioniere, ma sono anche attivamente carnefici di sé stesse.

Il sistema non ci impone il silenzio, ma ci stimola costantemente a condividere, partecipare, raccontare, a esternare opinioni, bisogni, desideri e preferenze, a raccontare tutta la nostra vita. Altro che il censimento degli anni Ottanta! Ma adesso ci denudiamo di proposito, carichiamo volentieri in rete qualsiasi tipo di dati e informazioni sul nostro conto senza sapere chi li capterà e che cosa ne farà, quando e perché. La comunicazione digitale è una nuova forma di produzione che cancella scrupolosamente qualunque rifugio e trasforma tutto in dati e informazioni utilizzati dal mercato per accumulare ricchezza e dal sistema per aumentare il proprio potere. Il report completo della vita ha sostituito la fiducia con l’informazione e il controllo e quindi l’odierna società della “trasparenza” è diventata la società della sorveglianza totale.

Oggi la trasparenza viene richiesta (ma spesso a senso unico) in nome della libertà e della democrazia, ma in realtà è di fatto uno strumento neoliberista e capitalista volto a produrre informazioni che a loro volta si trasformeranno in maggiori consumi, produttività e crescita. Inoltre, è una trasparenza che genera conformismo. Ma è una tecnica di potere non proibitiva o repressiva, ma seduttiva, che non si manifesta con divieti, ma con un like ed è perciò maggiormente efficiente. Non è vero che la trasparenza crea fiducia, né è la negazione. L’esasperazione della trasparenza priva di significato concetti e parole come onestà e correttezza. La società della trasparenza diviene oggi la società del sospetto. Tutti si denudano: è questa la logica della società del controllo. Ma si denudano volontariamente, non costretti; si denudano per un bisogno proprio, ancorché indotto, seguendo la logica della società della prestazione, dove l’auto sfruttamento è più efficiente dello sfruttamento da parte di terzi e la totale trasparenza equivale allo sfruttamento. In questo oggi consiste la crisi della libertà.

E anche della democrazia, perché se da un lato la democrazia liquida accelera sicuramente i processi e li rende più flessibili, dall’altro li svuota di contenuti e riduce il tutto a una democrazia del “mi piace”, con il risultato che la politica diventa gestione ordinaria dei bisogni sociali e del mantenimento del consenso, salvaguardando inalterati i rapporti economici e sociali esistenti.

La società della prestazione e della concorrenza esasperata crea isolamento, ansia, paura di fallire, di restare indietro di sbagliare, di non essere all’altezza delle proprie ambizioni e vergogna per la propria inadeguatezza. Ma l’isolamento non consente di produrre l’autostima, che necessita del confronto con gli altri. E qui sta la contraddizione. L’altro è fondamentale per la costruzione di un sé stabile, ma il sistema crea sempre più isolamento e auto referenzialità di cui i selfie sono una manifestazione. Oggi si fa di tutto per attirare l’attenzione, compreso postare in internet video di noi che saltelliamo; salto perciò sono.

La società della prestazione arriva a prendere in ostaggio il tempo, a incatenarlo al lavoro. Abolisce tutte le forme temporali che non obbediscono alla logica dell’efficienza. Non c’è più tempo per la narrazione, per la contemplazione e neppure per l’altro e per la comunità; c’è solo il tempo per il lavoro, per l’auto sfruttamento.

La società della tecnica si è imposta, anzi, ci è stata imposta.


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