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di Riccardo Tedeschi

L’auspicato arrivo del vaccino contro il virus Covid-19 ha dato luogo ad un interessante ed attualissimo dibattito che ha visto l’intervento di autorevoli esperti. Il dibattito riguarda in generale l’opportunità e la liceità di un obbligo giuridico alla vaccinazione e più in particolare le misure che il datore di lavoro può o deve adottare per la tutela dei lavoratori dipendenti in relazione alla sopravvenuta disponibilità del vaccino.

Pietro Ichino è a favore della vaccinazione obbligatoria

Tra gli interventi sicuramente più rilevanti, va segnalato quello del prof. Pietro Ichino che, in un articolo pubblicato sul forum di Tito Boeri lo scorso 28 dicembre, si chiede se, in assenza di una norma di legge che ne disponga l’obbligatorietà, sia consentito al datore di lavoro richiedere la vaccinazione ai propri dipendenti che abbiano la possibilità di sottoporvisi. La risposta che dà Ichino è positiva ed è condivisa dall’ex PM dott. Guariniello.

Ichino fonda la propria valutazione sull’art. 2087 del codice civile, che pone a carico del datore di lavoro l’obbligo di adottare tutte le misure idonee a tutelare la salute dei propri dipendenti, e sull’art. 279 del TUSL (testo unico sulla sicurezza negli ambienti di lavoro – D.Lgs. 81/2008), che prevede l’obbligo specifico del datore di lavoro di richiedere la vaccinazione del dipendente. Osserva Ichino che, anche se il vaccino non elimina il rischio di contagio, detto rischio con il vaccino diminuisce drasticamente, fermo restando l’obbligo di adottare tutte le altre misure di sicurezza (mascherina, igiene e distanziamento) sino a che la pandemia non sarà del tutto debellata.

Come comportarsi se il dipendente rifiuta il vaccino secondo Ichino

In caso di motivato rifiuto da parte del dipendente (magari per oggettive ragioni sanitarie), prosegue Ichino, si dovrebbe valutare se è possibile adottare misure idonee allo svolgimento della prestazione lavorativa in sicurezza e, se questo non sarà possibile, sospendere la prestazione attivando misure di integrazione salariale. In caso di immotivato rifiuto, invece, si pone la questione dell’adozione del provvedimento più appropriato, che potrebbe andare dalla sospensione senza retribuzione del dipendente ingiustificatamente renitente, con la sua sostituzione sino a che la pandemia non sarà cessata, al licenziamento del lavoratore che rifiuta senza giustificato motivo l’adozione di una misura necessaria per la sicurezza propria, dei colleghi di lavoro e dei terzi.

Secondo Ichino, non costituisce motivo ragionevole del rifiuto la preoccupazione degli effetti indesiderati che il vaccino può avere, dal momento che il compito di valutarne la sicurezza è demandato dall’ordinamento agli organi sanitari competenti che già si sono espressi dando il benestare, mentre la mancata vaccinazione rappresenta in ogni caso un rischio maggiore. Ichino conclude affermando che, in assenza di una specifica norma di legge, non si può introdurre un obbligo generale alla vaccinazione, ma i renitenti non potranno pretendere di essere ammessi in un ambiente di lavoro in cui la loro presenza sia fonte di rischio per la salute altrui. Lo stesso dicasi per altri rapporti contrattuali, quali quello di trasporto, di ristorazione o relativi all’accesso in luoghi aperti al pubblico, come un supermercato, un museo o una sala da concerto.

Contro il parere di Ichino si è levato furente (ed anche un po’ scomposto) il dott. Nino Galloni, già direttore del Ministero del Lavoro, secondo cui imporre il vaccino sarebbe anticostituzionale, oltre che contrario al diritto naturale. Sostiene Galloni che i lavoratori ben potrebbero richiedere il vaccino, ma nessuno può imporlo, neppure il datore di lavoro. Aggiunge che neppure la previsione costituzionale di cui all’art. 32, che prevede la possibilità di un obbligo introdotto per legge, è sufficiente nella fattispecie in esame, perché si scontrerebbe con il principio della precauzione, stante la sperimentazione sicuramente insufficiente. In definitiva, quindi, secondo Galloni la vaccinazione non rientra tra quei comportamenti che il datore di lavoro può esigere dal proprio dipendente.

Per la Fondazione Studi Consulenti del Lavoro serve una norma ad hoc per rendere il vaccino obbligatorio

Sul punto ha preso posizione la Fondazione Studi Consulenti del Lavoro auspicando specifici chiarimenti normativi e di prassi e ritenendo necessaria, per creare le migliori condizioni di contrasto preventivo alla diffusione del virus nei luoghi di lavoro, una norma che renda obbligatorio il vaccino per i lavoratori come misura preventiva del contagio in azienda, alla stregua dell’utilizzo di mascherine, detergenti e distanziamento. Diversamente sarà difficile tutelare la salubrità dei luoghi di lavoro e la conseguente responsabilità del datore di lavoro.

Il Centro Studi IPSOA e la transizione tra riflessione sulla sorveglianza sanitaria diretta e indiretta

Significativo intervento vi è stato anche da parte del Centro Studi IPSOA secondo cui, a mente dell’art. 2087 c.c., non è possibile per il datore di lavoro imporre il vaccino ai dipendenti. Vi sono però da considerare le disposizioni contenute nel TUSL (D.Lgs. 81/2008) e segnatamente l’art. 279 – da leggere ormai alla luce della Direttiva (UE) 2020/739 del 3 giugno 2020, recepita nel nostro ordinamento, che classifica la SARSCoV-2 come patogeno per l’uomo del gruppo di rischio 3 – che, al secondo comma, impone al datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione. Certo, la “messa a disposizione” del vaccino contro il Covid-19 non vale di per sé sola a rendere obbligatoria per i lavoratori la vaccinazione. Ma lo stesso art. 279, comma 2, non si limita a prescrivere “la messa a disposizione di vaccini efficaci”, ma prescrive, altresì, “l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’articolo 42”. E l’art. 42 stabilisce che il datore di lavoro attua le misure indicate dal medico competente e, qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica, adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza. 

Le citate disposizioni normative vanno lette alla luce dell’attuale processo di transizione da una sorveglianza sanitaria diretta a proteggere il singolo lavoratore a una sorveglianza sanitaria che amplia le sue finalità alla tutela dei terzi, lavoratori e no, evocata in più norme del TUSL, ed alla luce delle insistite parole della Corte Costituzionale che ha sottolineato l’obiettivo di “garantire e tutelare la salute (anche) collettiva attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale”.

Né può il datore di lavoro trascurare i doveri stabiliti nell’art. 18, comma 1, lettere g) e bb), D.Lgs. n. 81/2008 di vigilare sul rispetto degli obblighi del medico competente e di adibire i lavoratori alla mansione soltanto se muniti del giudizio di idoneità. Ove l’inosservanza di tali obblighi sia causa di un’infezione da Covid 19, può sorgere a carico del datore di lavoro e del medico competente la responsabilità per omicidio o lesioni colposi.

Circa l’obbligo del datore di lavoro di adibire il lavoratore inidoneo ad altra mansione, va ricordato che da anni la Cassazione sostiene che l’obbligo di “repechage” non può ritenersi violato quando l’ipotetica possibilità di ricollocazione del lavoratore nella compagine aziendale non è compatibile con il concreto assetto organizzativo stabilito dalla parte datoriale. 

Il Centro Studi IPSOA considera anche l’ipotesi di introdurre misure tecniche, organizzative e procedurali contro il rischio coronavirus nel DVR, a tutela dei lavoratori, e rammenta che, fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19, il decreto rilancio (D.L. n. 34/2020) riconosce ai lavoratori fragili il diritto allo smart working.

Vaccini e rapporti di lavoro secondo la Corte di Cassazione

È opportuno, infine, rammentare il distinguo operato dalla Corte di Cassazione (Cass. 9 ottobre 2015 sent. n. 40721) che da un lato considera le misure di carattere oggettivo non riferite a un particolare destinatario (ad es., i requisiti previsti per le attrezzature di lavoro) e dall’altro considera le misure indirizzate ad una specifica tipologia di soggetti, quale la sorveglianza sanitaria posta a beneficio del lavoratore. Ciò comporta che un’adeguata elaborazione del DVR necessita la previsione dell’esigenza di attivare la vaccinazione delle persone non riconducibili nell’ambito dei lavoratori, ma presenti nei luoghi di lavoro

Non diversamente, il datore di lavoro che affidi a un’impresa appaltatrice o a un lavoratore autonomo l’esecuzione di un lavoro o di un servizio o di una fornitura nel proprio ambito aziendale, è tenuto a elaborare il DUVRI contenente le misure contro i rischi da interferenze (ivi incluso il pericolo di contagio e la necessaria vaccinazione) e a vigilare sull’effettiva osservanza di tali misure da parte dell’impresa appaltatrice o del lavoratore autonomo.

Stiamo andando verso il vaccino obbligatorio?

Una volta tanto mi trovo a condividere l’opinione di Ichino e, a differenza di quanto sostenuto dal Centro Studi IPSOA, credo che anche l’art. 2087 c.c. imponga al datore di lavoro di richiedere la vaccinazione dei dipendenti, trattandosi di una norma di chiusura che fa obbligo al datore di adottare tutte le misure idonee a salvaguardare la salute dei lavoratori.

Il prof. Galloni esprime una sua legittima opinione, ma erra quando cerca di giustificarla ricorrendo a precetti normativi di rango costituzionale o addirittura evocando il diritto naturale, dimostrando così i propri limiti di cultura giuridica, peraltro comprensibili essendo egli un economista. L’articolo 32 della Costituzione prevede espressamente che la Legge possa imporre un trattamento sanitario, con il solo limite che detto trattamento non può “violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Ora, affermare, nel caso che ci occupa, che una norma che imponesse il vaccino anti-Covid contravverrebbe a detti limiti, appare una evidente forzatura, senza contare che Galloni dimentica che i vaccini posti in circolazione hanno ottenuto l’approvazione delle autorità sanitarie nazionali ed europee, le sole autorizzate per legge a tale valutazione, il che esclude che possa trattarsi di un trattamento che contravviene ai “limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Da ultimo condivido l’auspicio formulato dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro che intervengano specifici chiarimenti normativi e di prassi e segnatamente una norma che renda obbligatorio il vaccino per i lavoratori come misura preventiva del contagio in azienda, alla stregua dell’utilizzo di mascherine, detergenti e distanziamento. Diversamente, non solo sarà impossibile tutelare la salubrità dei luoghi di lavoro, ma è facile prevedere che la materia qui esaminata sarà fonte di un imponente contenzioso tra lavoratori e datori di lavoro.

 

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