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di Riccardo Tedeschi
Spesso si parla della fine delle ideologie, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino. In realtà, una nuova ideologia, quella neocapitalista e del mercato, si è fatta strada permeando ogni sfaccettatura dell’esistenza, dalla religione alle forme di resistenza a favore di una società più giusta. Una riflessione dell’avvocato Riccardo Tedeschi, vice presidente della Fondazione Centro Studi Doc.
Il mercato come nuova fede
Negli ultimi decenni abbiamo letto e sentito dire sino alla noia che con la caduta del muro di Berlino sono finite le ideologie che hanno caratterizzato gran parte del ventesimo secolo. Io non lo credo.
Con la caduta del muro di Berlino si è definitivamente affermata una ideologia assoluta che è il mercato, stella polare del neocapitalismo fagocitato dalla tecnica.
Il nuovo ordo oeconomicus ha un altissimo tasso ideologico, teologico e religioso e vincola tutti gli abitanti del pianeta all’onnipotenza del mercato come unico principio direttivo della totalità delle relazioni sociali. La nuova ortodossia libero scambista, con l’ordine mentale funzionale al mercato globale divinizzato, rappresenta la nuova fede, il pensiero unico politicamente corretto ed eticamente corrotto dell’uomo post moderno.
Il capitale assoluto riconverte tutto nella “forma merce” (Marx) o nella figura dell’”ente utilizzabile” (Heidegger). Ricorda Marx che il progresso del capitale si basa sull’abbattimento di ogni limite e di ogni ostacolo, in modo che non resti nulla di materiale o immateriale rispetto all’impero senza confini della merce.
Marx diceva che per il capitale ogni limite, sia esso etico, religioso o filosofico, è un ostacolo da abbattere e Heidegger osservava che, nell’imperialismo planetario tecnicamente organizzato, il soggettivismo dell’uomo raggiunge la sua vetta più alta per ridiscendere nell’uniformità organizzata che diviene lo strumento più sicuro per il dominio completo. Secondo Lukacs “la meccanizzazione del mondo meccanizza necessariamente anche il suo soggetto” riducendolo a prodotto tecnico tra i tanti, ovvero a fondo disponibile.
La verità è spodestata dall’utilità e dal successo, dalla quantità e dal valore economico, il capitale al potere non sa più che farsene di dio, etica, idealità e valori (a parte quelli delle merci); tutto deve essere materia disponibile per il consumo e la circolazione.
Il neocapitalismo va oltre le religioni
Con Costantino il cristianesimo diventò instrumentum regni e tale è rimasto sino al ventesimo secolo, e nel nostro Paese il potere ha cercato supporto nel cattolicesimo che, odiando la vita, ha trasformato la paura in dovere e la rassegnazione in virtù.
A differenza del fascismo, che con la chiesa ha dovuto cercare un compromesso, il neocapitalismo assoluto e totalitario non ha alcun bisogno della religione e della chiesa in quanto è esso stesso “religione” e anche perché la sua potenza nell’occidente è ormai talmente pervasiva e dilagante da non aver più bisogno di supporti esterni con cui dover scendere a patti.
Il poco che residua della religione nell’occidente è una zavorra per il neocapitalismo. Analoga zavorra è oggi l’islam, che non a caso viene spesso identificato tout court con il terrorismo. Infatti, i paesi non occidentali, dove la resistenza allo strapotere dell’ideologia non ha potuto sino ad oggi essere superata mediante l’assimilazione, sono diventati sovente “stati canaglia” o “impero del male”.
Secondo un giovane Marx la religione è espressione della miseria e “oppio dei popoli” che ottunde le energie della critica e produce adattamento all’ordine delle cose; da seguace di Hegel, Marx sosteneva che non è più tempo di sopportare con pazienza cristiana la miseria terrena, ma è tempo di perseguire la felicità su questa terra, occorre cioè “abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni”, liberarsi dalle catene, non essendo più possibile attendere post mortem risarcimenti e compensazioni nell’aldilà. Il marxismo predica quindi la salus humanitatis che sostituisce l’eterno con l’avvenire, proiettando la salvezza sul piano degli accadimenti mondani.
Ma il tecno capitalismo mette al bando tanto la tensione messianica cristiana che la variante secolare marxista, assimilando in questo l’utopia cristiana dell’aldilà e quella del mondo nuovo socialista, entrambe incompatibili con la società del mercato.
La forza repressiva e individualizzante dell’ideologia del neocapitalismo
Il nuovo potere consumistico, come ben aveva intuito Pasolini, è falsamente tollerante, anzi è più repressivo che mai, corruttore e degradante; mai come oggi ha avuto senso l’affermazione di Marx secondo cui il capitale trasforma la dignità umana in merce di scambio.
Nietzsche nella Gaia Scienza parla della cancellazione dell’orizzonte di senso attorno al quale si è sviluppata la civiltà umana e occidentale in particolare, cancellazione che ha portato all’”eterno precipitare” e all’”infinito nulla”, senza riferimenti, senza valori e in uno spazio vuoto, e si chiede: “esiste ancora un alto e un basso?” “che cosa significa nichilismo? Significa che i valori si svalutano, manca lo scopo, manca la risposta ai perché”, con la conseguenza che i giudizi etici e morali sui valori sono negazioni.
L’ontologia del capitale è nichilista, perché presuppone che l’essere non sia e ci siano solo enti disponibili per i processi tecnico scientifici finalizzati alla crescita smisurata, supportati da una morale che si fonda sulla universale negoziabilità dei valori, tutti subordinati all’unico valore superstite: il valore di scambio in un mercato che mira solo all’auto potenziamento del dispositivo, alla volontà di potenza. La fine dell’umanesimo sta creando “l’ultimo uomo” di Nietzsche, ridotto a mero giocattolo nelle mani dell’apparato tecno capitalistico che forma una società dove ogni legame solidale è dissolto e dove il do ut desconsumistico è la sola relazione consentita.
Stiamo costruendo la società individualizzata degli eremiti di massa. La società commerciale teorizzata da Adam Smith dove il buono e il giusto coincidono con i desideri individuali indotti di ciascuno, che coltiva come unica forma di bene l’amor sui e l’ego smisurato di ognuno.
In questo scenario dai tetri contorni si sta realizzando la grigia profezia di Tocqueville, cioè una lugubre società livellata popolata degli ultimi uomini profetizzati da Nietzsche, ciascuno estraneo al destino dei suoi simili, assorbito integralmente da sé stesso e dal proprio godimento acefalo, senza identità, senza vis critica e senza spessore culturale. E sopra di essi, quasi impercettibile, un potere immenso e tutelare, lasco e permissivo, mite ma pervasivo, che li mantiene illimitatamente nello stadio dell’infanzia e dell’immaturità, in modo che sempre si divertano, purché non pensino che a divertirsi, dispensati dalla fatica di pensare.
Il consumo è la principale forma di espressione del sé
Il consumismo compulsivo, divenuto lifestyle, è la manifestazione soggettiva del turbocapitalismo, che non si accontenta dell’uomo consumatore, ma pretende che non siano concepibili e possibili altre ideologie diverse da quella del consumo, realizzando un edonismo neo laico dimentico di ogni valore umanistico. La società liberal globalista ha neutralizzato i diritti sociali della massa dannata dei miserabiles, mentre celebra gli insaziabili capricci consumistici dei ceti abbienti, talvolta nobilitandoli con l’etichetta di diritti civili.
Qualunque idea, espressione, valutazione che trascenda l’utilità immediata è tacciata di essere vecchia, superata o autoritaria a partire dai grandi ideali socialisti che hanno conferito un senso alle esistenze di tanti uomini e donne del diciannovesimo e del ventesimo secolo, permettendo loro di pensare e agire in nome di un futuro più entusiasmante rispetto alla miseria presente. Nella società dei consumi imposta dal tecno capitalismo tutto funziona e nulla è vero, l’oggetto del godimento diventa l’ideale e l’illusione di poter soddisfare ogni desiderio individuale viene contrabbandata per libertà.
La resilienza e l’adattamento diventano i valori fondanti della società neocapitalista
Il turbo capitalismo postmoderno e high tech flessibilizza la forza lavoro post fordista e con essa tutti i valori identitari collettivi, rendendo tutto liquido, instabile e superficiale, ma funzionale al profitto.
La fine dell’idea di una società più giusta, o comunque di qualcosa di più grande in cui sperare, viene raccontata come il fallimento delle utopie trasformatrici, così che, se non vi è più nulla in cui sperare (il motto neoliberale thatcheriano “there is no alternative”), il solo atteggiamento concesso consiste nell’adattamento rassegnato e depressivo, come insegnano i cantori della resilienza e dell’eterno ritorno del mercato, che però è denso di chances per l’individuo (che “può farcela”) in cerca dell’affermazione narcisistica del proprio io desocializzato e privo di ogni passione e visione ulteriore, secondo il valore di scambio di cui dispone.
Non a caso la società neocapitalista ha introdotto quale massima virtù la resilienza, elogiando colui che, avendo accantonato ogni aspirazione utopica e ogni ragionata indocilità, si adatta ad ogni circostanza convinto che non siano possibili altre forme di organizzazione sociale o che comunque resistere non serva a niente.
Quale futuro?
Viviamo in un tempo e in un sistema avversi all’arte, alla religione e alla filosofia, da sempre le tre manifestazioni dello spirito assoluto, i tre modi con cui l’uomo ha sempre provato a cogliere la verità raffigurandola artisticamente nel sensibile, rappresentandola religiosamente, concettualizzandola filosoficamente. Una società frammentata in cui ciascuno mira al proprio tornaconto, in cui si è realizzato l’ossimoro dell’individualismo di massa, delle solitudini telematiche, dei social senza socialità, del mondo wireless connesso con ogni angolo del pianeta, ma in cui ciascuno vive isolato da tutto e da tutti nella propria stanza, semplice protesi di un sistema etero-diretto dal tecno capitale. Una società neoliberista ove l’unico spazio di socializzazione e confronto ammesso è il mercato, ove vige il monologo planetario della forma merce che presuppone il superamento di qualsiasi identità e cultura, in cui manca persino il presupposto per un confronto multiculturale. Poco senso ha appellarsi ipocritamente ad un dialogo che altro non è che l’incontro tra prospettive svuotate di contenuti e quindi tali da comunicarsi il nulla a cui sono state ridotte.
La società capitalista promuove e pretende l’omologazione, spacciandola per uguaglianza, mentre realizza le massime disuguaglianze e disparità che si siano mai sino ad oggi registrate nella storia.
È un futuro desiderabile questo? Penso di no. Kant diceva che le regole per la felicità sono aver qualcosa da fare, aver qualcuno da amare e aver qualcosa in cui sperare.
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Foto di Reynaldo #brigworkz Brigantty