Tempo di lettura: 7 minuti
di Riccardo Tedeschi
Per la prima volta l’emergenza sanitaria ci ha obbligati a trascorrere chiusi in casa le ricorrenze del 25 aprile e del primo maggio. Questa reclusione forzata ci induce a delle riflessioni, su cosa ci manca e su cosa effettivamente ci serve.
Da decenni viviamo in un mondo noioso in cui tanta gente si tiene superficialmente informata attraverso i media, una società occidentale per la quale le catastrofi, le guerre, le carestie sono solo vaghe notizie che giungono da altri mondi oppure appartengono ad una storia imparaticcia che sovente neppure abbiamo sentito raccontare. I fatti che abbiamo vissuto, l’attualità, il contingente non hanno mai cambiato la nostra esistenza, che sino ad oggi non ha mai vissuto uno stravolgimento. Anzi, da decenni la nostra vita si è srotolata nel più anonimo consumismo che ci ha inaridito l’anima, ci ha indotto una mollezza antropologica caratterizzata da una ideologia edonistica ed egoista. Il web e le dirette Facebook o Instagram sono diventate il falso antidoto alla solitudine. Questa cosiddetta modernità, questo mondo virtuale, falsamente animato e fucina di finti miti, ha azzerato l’uomo, ne ha inibito il pensiero, ha annullato la profondità, ha ridotto tutto ad apparenza. Non è, ovviamente, la tecnologia (che ha sicuramente attutito l’impatto dell’emergenza sanitaria consentendo il lavoro agile e le video conferenze) il problema, ma l’utilizzo che di essa viene fatto laddove veicola la superficialità elevata a sistema o quando da strumento diventa il fine.
Il web e le dirette Facebook o Instagram sono diventate il falso antidoto alla solitudine. Questa cosiddetta modernità, questo mondo virtuale, falsamente animato e fucina di finti miti, ha azzerato l’uomo, ne ha inibito il pensiero, ha annullato la profondità, ha ridotto tutto ad apparenza.
La pandemia sta ponendo fine a tutto questo e ci sta obbligando a fare i conti con un evento storico che ha portato la catastrofe nel nostro presente, ha uniformato il nostro mondo a quelli lontani, ha portato la storia dentro casa nostra.
Lo scenario è catastrofico eppure c’è qualcuno che ancora si fa un selfie in cucina mentre si cimenta con una ricetta di qualche cuoco di grido imparata da una TV commerciale. Ma questa pandemia ci costringe a riflettere, ad approfondire e a ripensare alle nostre scelte recenti. A chiederci se il nostro modello di sviluppo, che ha fatto di noi dei consumatori anziché degli esseri umani, è veramente il migliore possibile.
Ci impone di riflettere se l’aver privilegiato la finanza a scapito dell’economia reale sia stata una buona scelta, se l’aver fatto del profitto l’unico valore non ci ha in realtà impoveriti, se l’aver privatizzato servizi essenziali per ogni paese civile, come l’istruzione e la sanità, alla luce dell’attuale esperienza sia stata una buona idea.
L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo ci insegna che un paese non può dirsi civile se non fornisce almeno efficienti servizi essenziali, che sono la sanità, l’istruzione, la giustizia e la sicurezza; che non c’è progresso né democrazia se non c’è anche giustizia sociale; che lo sviluppo non può prescindere dalla preservazione dell’ambiente; che l’aumento delle disparità sociali, acuite nell’ultimo trentennio, forse suggerisce che non c’è stato vero progresso; che forse al valore del profitto va sostituito quello della solidarietà sociale.

La solidarietà sociale, sì. E la giustizia sociale di cui parlavano le menti più autorevoli del nostro recente passato, da Piero Gobetti ai fratelli Carlo e Nello Rosselli, da Ferruccio Parri a Piero Calamandrei, da Antonio Gramsci a Norberto Bobbio. Le lucide menti che hanno ispirato e spesso materialmente scritto la Costituzione della nostra Repubblica e che tra i principi fondamentali hanno inserito l’art. 3, dove si afferma che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni, e che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Ma i Padri Costituenti si rendevano conto che, nell’Italia uscita dal fascismo e dalla guerra, il problema che la Costituente si trovava ad affrontare non era la codificazione di una rivoluzione politica e sociale già compiuta, ma quello di concepire un rinnovamento ancora da fare e per cui la Costituzione doveva essere “non l’epilogo, ma il prologo di una rivoluzione sociale”, per dirla con le parole di Piero Calamandrei, perché “non c’è democrazia se non c’è giustizia sociale”. Purtroppo quel rinnovamento ancora non c’è stato.
Giustizia sociale e solidarietà. Ma cos’è la solidarietà? Sono i gesti di cui i media, giornali e TV ogni giorno ci informano? Le raccolte di denaro a sostegno della Protezione Civile o degli ospedali in difficoltà? L’organizzazione delle mense per i vecchi e nuovi poveri e la distribuzione di generi alimentari e di prima necessità a chi per effetto della pandemia è rimasto senza reddito? Certamente sono tutte iniziative lodevoli che danno conto di una generosità e di uno spirito di condivisione che ancora pervade la nostra società e la nostra gente. Ma non basta. La solidarietà deve essere istituzionalizzata, deve essere presa a modello di sviluppo.
Ora l’emergenza sanitaria ci sta facendo capire l’importanza per ciascuno del lavoro degli altri, attraverso la sofferenza o anche solo il fastidio di non disporre più di tante cose che abbiamo sempre dato per scontate. Ma scopriamo anche che buona parte di ciò che faceva parte del nostro mondo e dei nostri consumi non era poi così importante.
I leader della destra italiana hanno lanciato i loro strali contro un’Europa tacciata di essere egoista perché non vuole condividere i problemi dei singoli paesi aderenti, cioè non vuole (soprattutto alcuni paesi del nord Europa) che il debito che taluni stati devono contrarre per uscire dalla crisi diventi debito collettivo della comunità europea (attraverso euro bond o strumenti similari) o che gli aiuti europei diventino sussidi a fondo perduto anziché restare prestiti; vi è quindi la pretesa di una solidarietà europea basata sul concetto di collettivizzazione del debito o dell’onere per uscire dalla crisi. Questa pretesa rivolta all’Europa però non trova analogo riscontro nelle posizioni espresse sul fronte interno, dove la redistribuzione della ricchezza attraverso la leva fiscale, per quegli stessi leader, non può neppure essere nominata e dove l’idea di una patrimoniale resta un tabù. Gran parte della nostra classe dirigente politica, infatti, difende i grandi patrimoni dall’ipotesi di un prelievo fiscale, così come difende i redditi più alti da ogni proposta di accentuare la progressività dell’imposta e realizzare una vera redistribuzione del reddito ed, anzi, da parte di taluno, si insiste nel proporre un flat tax uguale per tutti come panacea per uscire dalla crisi. Sorge allora il dubbio che, a fronte di tanti genuini gesti solidali, vi sia qualcuno la cui solidarietà “pelosa” nasconde la volontà di preservare vecchi e nuovi privilegi.
I popoli europei hanno bisogno, oggi più che mai, di solidarietà vera, dentro e fuori i confini dei singoli stati dell’unione europea. Ma non solo. Questa è l’occasione per riflettere sui guasti che il nostro modello di sviluppo ha prodotto sull’uomo e sull’ambiente. Decenni di esasperato individualismo ci hanno convinti che siamo felicemente autosufficienti, indifferenti al complesso e articolato sistema di relazioni che ci ha permesso di vivere come abbiamo fatto fino ad oggi. Ora l’emergenza sanitaria ci sta facendo capire l’importanza per ciascuno del lavoro degli altri, attraverso la sofferenza o anche solo il fastidio di non disporre più di tante cose che abbiamo sempre dato per scontate. Ma scopriamo anche che buona parte di ciò che faceva parte del nostro mondo e dei nostri consumi non era poi così importante. Migliaia di articoli più o meno inutili sugli scaffali dei grandi magazzini, ma inadeguati servizi di cura per gli anziani, pochi o nulli i sostegni per i genitori lavoratori che non sanno dove collocare i figli a casa da scuola, il territorio che crolla ad ogni pioggia, servizi sanitari e di istruzione svenduti ai privati che a fronte dell’emergenza mostrano tutti i limiti conseguenti a decenni di disinvestimenti.
Il segretario generale della CGIL Landini, nel corso del suo intervento in occasione del primo maggio, ha parlato dell’urgenza di rivedere le nostre priorità e di consumi sovente imposti dalle necessità della produzione, piuttosto che da bisogni reali, per appagare i quali stiamo distruggendo la Terra.
La pandemia ci sta insegnando che per superare questa crisi ed andare oltre le ragioni che l’hanno determinata o hanno contribuito ad aggravarla, serve uno slancio che parta dalle istituzioni europee prima ancora che nazionali. Una grande visione analoga a quella del new deal rooseveltiano. Un grande progetto che si fondi sul principio che i popoli, la gente, le persone non hanno solo bisogno di sussidi, che hanno il respiro corto di una panacea momentanea, ma di un lavoro dignitoso, con tutti i valori materiali e spirituali che si porta appresso, unica leva per risollevare la collettività dalla prostrazione e dalla paura in cui è caduta.
I popoli, la gente, le persone non hanno solo bisogno di sussidi, che hanno il respiro corto di una panacea momentanea, ma di un lavoro dignitoso, con tutti i valori materiali e spirituali che si porta appresso, unica leva per risollevare la collettività dalla prostrazione e dalla paura in cui è caduta.
Il new deal di Roosevelt ha dato lavoro a decine di milioni di americani impiegati a realizzare tutte quelle infrastrutture ed opere pubbliche di cui la nazione aveva bisogno. Ha mobilitato le migliori menti affinché gli interventi potessero beneficiare di creatività, inventiva ed innovazione. Ha puntato sulla celerità degli interventi ed ha fatto sì che in pochi anni si siano realizzate straordinarie opere pubbliche, dai grandi argini del fiume Missisipi a decine di dighe, dagli ospedali alle biblioteche, dalle scuole alle grandi highway.
Non solo. Il new deal, attraverso la Public Works Administration, ha scommesso sulla cultura, ha promosso la formazione di centinaia di migliaia di lavoratori dando loro la possibilità di ricollocarsi proficuamente nel mondo del lavoro, ha promosso le arti figurative, la musica, il teatro, la scrittura, coinvolgendo migliaia di artisti, tra cui personalità eccellenti come Kazan, Pollock o Miller, in progetti che andavano dalla realizzazione di grandi opere d’arte da collocare in edifici e spazi pubblici alla raccolta di migliaia di testimonianze orali che hanno consentito di iniziare a creare una cultura identitaria dalla nazione, tra cui il lavoro svolto da John ed Alan Lomax che per oltre un decennio hanno girato gli Stati Uniti per raccogliere tutte le testimonianze di musica tradizionale che oggi compongono una vastissima collezione conservata nella Biblioteca del Congresso.
La pandemia ha reso evidente che il nostro Paese e l’Europa tutta hanno bisogno di un nuovo new deal che, come fu per gli Stati Uniti, trasformi radicalmente la nostra società, la nostra classe dirigente e le nostre istituzioni. Una grande visione in grado di ripensare il nostro modello di sviluppo che non dovrà più essere finalizzato al solo profitto, ma al soddisfacimento di reali bisogni collettivi e individuali nel rispetto della natura e dell’ambiente. Un nuovo umanesimo incentrato sul lavoro e sull’etica pubblica.