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Donatella Di Cesare, filosofa (è stata allieva di Hans-Georg Gadamer) e saggista (la sua ultima opera, edita da Einaudi, è “Democrazia e anarchia. Il potere nella polis”), è docente di filosofia teoretica all’Università La Sapienza di Roma. L’abbiamo incontrata a Verona, a margine di un incontro sul tema “Le ragioni del no al riarmo europeo. Le ragioni del sì a politiche di pace”, nell’ambito della Scuola di Pace e Nonviolenza promossa da Diocesi, Fondazione Toniolo e Movimento nonviolento. L’intervista di Enrico Santi.
Professoressa Di Cesare, per quale motivo dovremmo opporci alle politiche di riarmo in Europa?
Non si possono risolvere i conflitti attraverso le armi, è necessaria la politica. La politica non può abdicare alle armi e noi abbiamo bisogno, in Europa, di una politica dell’Unione Europea e quindi non del riarmo dei singoli Stati nazionali perché non sappiamo questo riarmo quali esiti potrebbe avere. Sicuramente porterebbe al riarmo di alcuni Stati più potenti e molto meno di altri. Si creerebbe così uno squilibrio e avremmo un’enorme potenza militare all’interno dell’Europa, come la Germania, che detterebbe, evidentemente, la politica dell’Unione. E questo non possiamo accettarlo e non possiamo permetterlo.
Nella conferenza appena svoltasi a Verona lei ha parlato di “necropolitica”, di una degenerazione delle politica, cioè, che accetta la morte delle persone.
Più che accettare, pretende come soluzione del conflitto il sacrificio delle vite, e quindi vediamo quello che è avvenuto in questi ultimi tre anni: il sacrificio di vite umane, da una parte e dall’altra. Quanti soldati russi e quanti soldati ucraini sono morti non lo sappiamo, però si parla di centinaia di migliaia di vite giovani stritolate dalla guerra … E a che pro, per risolvere cosa?
Alla fine i problemi rimangono più gravi di prima. La faglia, la frattura che si è creata è ancora più profonda e quindi, evidentemente non c’è nessuna soluzione ma c’è soltanto un sacrificio di vite. E una politica che chiede solamente un sacrificio di vite è una politica di cui non possiamo non sospettare. Perché viene da pensare e da credere che ci sia, appunto, chi alla fine ne approfitta. Che sia non uno scontro tra civiltà, ma un incontro di interessi e di grandi industrie che fanno profitto sulle vite umane.
E in questo contesto si può affermare che la stessa democrazia, così come finora abbiamo imparato a conoscerla, sia in pericolo. È così?
Sicuramente, poiché stiamo assistendo a un’erosione della democrazia che però non è un fenomeno superficiale, di facciata, ma è un fenomeno profondo. Si tratta di un grande sconvolgimento dovuto al fatto, appunto, di avere una politica che semplicemente amministra l’economia, amministra un ingranaggio e che quindi non comporta una scelta, non comporta soprattutto la possibilità di partecipare. Il risultato è un demos senza kratos, un popolo senza potere. Un popolo relegato all’impotenza che non può scegliere il proprio futuro e il futuro dei propri figli, il domani. E questo è inaccettabile.
Come contrastare, allora, le derive autoritarie sempre più aggressive, sia in Europa che a livello mondiale?
La deriva più inquietante è sicuramente quella che avviene negli Stati Uniti con il fenomeno del trumpismo. Anche perché Trump è stato eletto per la seconda volta per cui bisogna interrogarsi, chiedersi il perché. Ciò che avviene negli Usa rappresenta lo svuotamento della democrazia, delle istituzioni democratiche e l’affidarsi semplicemente a una sorta di “salvatore”, di chi si presenta come colui che può salvare il corpo dell’America da tutto ciò che è fuori, da tutto ciò che viene additato come una minaccia, un pericolo o un nemico… Qui vediamo veramente la morte delle istituzioni democratiche, senza possibilità di tornare indietro. Quello che è pericoloso è non solo la deriva ma l’impossibilità di recuperare poi la democrazia.
Il mondo delle cultura, in tutte le sue accezioni, che contributo può dare a una nuova politica e una cultura della pace?
Io penso che possa dare un contributo decisivo, perché di cultura, in questo momento, è proprio ciò di cui abbiamo bisogno. E intendo come cultura anche la possibilità di un confronto, di un dibattito, di una comunità interpretativa, di una comunità dove, appunto, c’è la possibilità di interpretare insieme la storia e quello che avviene. Le voci della cultura sono, in questo momento, determinanti. Ma è determinante anche la cultura diffusa, la partecipazione che avviene attraverso la cultura.
Stiamo assistendo, negli Stati Uniti ma non solo, ad un attacco senza precedenti nei confronti del sistema universitario e scolastico in genere. Come interpreta questa aggressione?
Anche questo fa parte dell’erosione della democrazia. La democrazia comporta sempre il dissenso e il dissenso significa anche divisione: ci si divide perché non si è d’accordo. Perché, appunto, si dissente. E questo è il sale della democrazia, ed è ciò, anche, che si insegna a scuola e nelle università: a pensare, cioè, con la propria testa, a pensare in modo critico. E questo, oggi, da amministrazioni come quella di Trump, ma non solo perché il fenomeno è diffuso un po’ ovunque, non viene accettato. Per cui si colpiscono, innanzitutto, le istituzioni che rappresentano il luogo del dissenso e del pensiero critico: la scuola e l’università.
Considerate di intralcio evidentemente…
Non soltanto un intralcio dal momento che il vicepresidente degli Stati Uniti, Vance, ha affermato che nelle università “ci sono i nostri nemici”.
In questi ultimi anni lei è stata spesso ospite dei cosiddetti talk show televisivi. Che bilancio fa di questa esperienza? La considera utile, positiva?
Secondo me lo spazio pubblico in Italia, come anche in altri Paesi europei, è uno spazio pubblico non neutro e non neutrale, al quale si accede con fatica, soprattutto se si hanno posizioni critiche. È uno spazio dominato, direi egemonizzato, da chi ha il potere. Non dobbiamo pensare allo spazio pubblico come a qualcosa cui si accede liberamente. Nel mio caso, è un bilancio con luci e ombre. Per me non è stato facile dal punto di vista personale intervenire, perché molte volte, nel caso soprattutto della guerra, avevo posizioni critiche nei confronti delle scelte politiche dominanti.
Spesso mi sono chiesta se vale la pena intervenire in un dibattito che spesso diventa un gioco delle parti. Però poi, anche girando per strada, mi è capitato che molte persone mi fermassero dicendo “io mi riconosco in quello che dice, per favore continui a intervenire perché lei rappresenta ciò che io penso, perché è portatrice delle mie istanze”. E allora mi sono spesso sentita in dovere di farlo, nel senso che se c’è un sia pure piccolo spazio che si apre bisogna prenderselo, per dare voce, per esempio, alla pace, parola che non viene quasi più pronunciata.
A costo di entrare nelle “liste di proscrizione” in quanto considerata “putiniana”…
Sì, come è capitato a me e a molti altri. Questa è stata un’esperienza molto negativa. Ci siamo trovati additati con nomi e cognomi, spesso con le nostre foto, facendoci diventare un bersaglio. Come dire: “potete colpire questa persona”. Un segno di inciviltà che ci ha fatto riflettere. Il mio caso è stato analogo a quello di altri, in queste liste c’erano personalità come Luciano Canfora, Carlo Rovelli… Ma, alla fine, dato che in Italia c’è un’opinione pubblica critica, penso che questo non abbia giovato a chi tali liste le ha volute. Non sono riusciti a persuadere, a convincere l’opinione pubblica italiana sulla presunta bontà delle scelte di guerra. Anzi, credo che si sia verificato l’esatto contrario.
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